Sur l’esprit des troubles par GianCarlo Pagliasso

Un bambino, nel 1959, in Francia.
La questione d’Algeria agita già gli animi degli adulti, ma si percepisce pur sempre ovattata, come un rumore di fondo, che riesce appena a turbare il tranquillo spartito quotidiano della vita metropolitana parigina.

Un bambino, d’estate, nel parco di Saint-Cloud, a gironzolare, sfuggendo un momento all’attenzione della madre, per gli spazi vasti che articolano il paesaggio di questo scenografico polmone verde alla periferia della capitale.
Ecco, il richiamo, reciproco, tra la sua curiosità e il profilarsi tentatore di uno dei grandi bacini che punteggiano, come laghi recintati, gli spiazzi pedonali circondati da prati e arboreti.

Come un narciso acerbo, il bambino si affaccia, protendendosi, sul bordo non alto della vasca, attratto dal colore verde fluorescente dell’acqua che i muschi e la luce solare impreziosiscono di striature luccicanti. L’equilibrio gli manca, precipita; la fronte, subito rugiadosa d’acqua, tiene vigile la sua attenzione mentre ora la testa e il corpo s’immergono come ad adagiarsi nell’abbraccio liquido della caduta. Gli occhi aperti fissano il tremulo chiarore del sole, intorbidito dal fluttuare distorcente la visione che le onde leggere del risucchio verso il fondale producono dirigendosi in superficie. Ed è ancora il frangersi del percetto, che la vista organizza in cerchi concentrici pulsanti, a rendere tattile ed indelebile, per la mente, lo sgomento impressionato sulla sua retina.

Questa l’immagine che, se non fosse contrappuntata dall’ambivalenza indistinguibile dello stupore e del turbamento, potrebbe essere d’acchito riferibile a quanto Bachelard dice a proposito delle rêveries dell’anima, quelle che abbracciano « i ricordi d’infanzia, il campo delle immagini amate, custodite, dall’infanzia, nella memoria» (1).
Questo il fatto, il cominciamento lungo il quale si articola a ritroso quella «metafisica dell’indimenticabile» che sostiene la memoria attraverso l’immaginazione allorquando la prima spinge ad un risultato espressivo, o come ci suggerisce ancora il filosofo « quando la rêverie del ricordo diventa spunto di un’opera poetica »(2).
Questo il flash mnestico che Pascal Bazilé ha conservato in sé e riattivato, come costrutto emotivo condivisibile attraverso la sua pratica creativa, una volta che, cresciuto, è diventato artista. Era lui il bambino, era lui che si ritrova, adulto, nell’emozione di traslare la sua inquietudine per lo spettatore. Gioco di rimandi e contrasti, allegoria da segmentare nella purezza della forma e nel vivido, esatto dinamismo dell’esperienza soggettiva psico-sensibile.

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La rielaborazione estetica che egli fa dell’impressione attrattiva-repulsiva provata all’età di tre anni – durante l’immersione accidentale nel parco di Saint-Cloud – viene simbolizzata attraverso il gioco in profondità che la sovrapposizione di una linea continua è in grado di generare per l’osservatore.

Per l’artista, questo è quanto può visualizzare, mediante l’uso di box con stampe digitali affiancate su fogli di plexiglas colorati o trasparenti , il « passato come valore d’immagine ».
Aderendo in toto alle premesse assiologiche di Bachelard circa la possibilità di percorrere fenomenologicamente il tragitto verso « l’essere dell’infanzia », Bazilé ‘conserva’ la traccia percettiva della sua caduta con la resa minimale del tremolio dell’acqua che suggerisce, nelle opere chiamate non a caso Troubles, può essere ‘fissato’ da una forma spiraloide iscritta all’infinito nel susseguirsi della propria ripetizione differenziata.

All’opera, nel lavoro di Bazilé, è allora più che mai evidente lo sforzo di attualizzare la rêverie come « mnemotecnica della immaginazione», e contemporaneamente di renderla pura, di padroneggiarla in una sinestesia assoluta, definitiva, che conservi nella concretezza della traccia, nella materialità del ‘disegno’, ogni palpito di vissuto, ogni instabilità dell’anima. I suoi troubles pervengono al limitare della soglia, in cui come ancora ci ricorda Bachelard « si indietreggia un po’, perché si riconosce che l’infanzia è il pozzo dell’essere »(3). Qui, ben al di là della contingenza specchiata del proprio smembramento d’immagine esperito a Saint-Cloud, ci si trova di fronte a qualcosa di « imperscrutabile, che è un archetipo […] Il pozzo è un archetipo, una delle immagini più pesanti per l’anima umana »(4), qualcosa che solo il costrutto memoria-immaginazione è in grado di sostanziare (nell’opera) per alleggerirlo dei significati traumatici, tormentati e sofferti che una seconda declinazione del termine trouble lascia intendere.

In buona misura, le opere di Bazilé, ispirate dall’accidentalità, insistono per un’idea del fatto artistico come « esistenzialismo del poetico che si libera degli accidenti »(5).
In larga misura, l’idealità estetica che pulsa dai suoi troubles è qualcosa che ci appartiene e ci pertiene, qualcosa in cui ci riconosciamo, fa parte di noi pur quando ci si presenta coi tratti indistinti di un appello che pensavamo dimenticato.

1) Gaston Bachelard, La poétique de la rêverie, tr. com. Stevan G. Silvestri, Bari, Daedalus, 1972, p.27.
2) Ibid.
3) Ibid. p.125.
4) Ibid.
5) Ibid. p.130.